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VITE AL SILICIO E UNIVERSI PARALLELI

 di Alessio Feltri

 

Fin dai primi momenti della missione marziana di Opportunity i rapporti tra la NASA e gli organi di stampa sono stati improntati all’insegna di un paradigma molto preciso: “Su Marte la vita non ci può (e non ci deve) essere”.

Quando sui monitors di Pasadena apparvero le prime sferule, i famosi “blueberries”, alcuni biologi presenti rilevarono la somiglianza tra il letto roccioso del cratere Eagle ed alcune formazioni terrestri (Diatomiti e Radiolariti), ma il direttore della missione Steve Squyres liquidò immediatamente la questione con due argomenti principali:

1)       Le sferule non assomigliano né alle Diatomee né ai Radiolari.

2)       Non c’è motivo di cercare improbabili spiegazioni biologiche per un fenomeno che può essere spiegato molto più semplicemente per via geologica.

A seguito di questo episodio, la NASA indicò per grandi linee 3 possibili spiegazioni per la presenza delle sferule:

1)       Lapilli vulcanici

2)       Tectiti di origine meteoritica o comunque residuali di fenomeni di impatto

3)       Concrezioni dovute a fenomeni di accumulo, in presenza di acqua corrente, intorno a nuclei di natura inorganica (ooliti) oppure organica (pisoliti).

Togliendoci gli occhiali del suddetto paradigma, di ipotesi bisogna aggiungerne almeno altre 2:

4)       Fossili

5)       Forme di vita o comunque prodotti di forme di vita.

Dato che le ipotesi 1) e 2) sono state accantonate dalla stessa NASA, in quanto del tutto incompatibili sia con la morfologia delle sferule sia, soprattutto, con le osservazioni relative al loro posizionamento relativamente alle concrezioni del substrato, di ipotesi possibili ne restano 1 (per la NASA) e 3 per chi non volesse imboccare anzitempo la via paradigmatica.

Coerentemente con quanto detto, la NASA ha dato per certa l’ipotesi concrezionaria, ingenerando in molti una logica perplessità, anche perché, sulla base di un criterio puramente morfologico, l’ipotesi fossile aveva almeno la stessa dignità di quella concrezionaria, come si evince dall’immagine seguente (TAV. I), in cui sono presenti una sferula marziana, un fossile terrestre di porifero [ Porocystis globularis, Giebel 1853 ] ed uno sferoide concrezionario.

 

 TAVOLA 1
 

D’altra parte non si può avere una risposta univoca neppure dalle analisi effettuate con lo spettrometro di massa: la compresenza sul letto roccioso esaminato di Jarosite, Magnetite, Ematite è compatibile sia con la tesi concrezionaria che con quella biologica, anzi, considerando la natura di biominerali di Jarosite e Magnetite ed il fatto che i biominerali sono conosciuti in circa 80 specie su un totale di oltre 3600, diventa quasi più probabile l’ipotesi di formazioni dovute ad organismi litogeni rispetto a tutte le altre.

Ma non è su questo piano che ho indirizzato la mia ricerca, bensì sono partito da un assunto molto semplice: delle 3 ipotesi considerabili, quella concrezionaria e quella fossile prevedevano necessariamente che le sferule, una volta distaccatesi dal substrato e cadute a terra, si disponessero sul terreno in maniera casuale, come succederebbe rovesciando per terra un secchio pieno di ghiaia con granuli di 3 mm. di diametro. In altre parole, se fosse dimostrata una disposizione “organizzata” delle sferule sul terreno, si avrebbe una prova certa di vita attuale su Marte, senza neppure aver bisogno di complicate congetture analitico-visive o disquisizioni di natura tassonomica, con inevitabili incertezze causate da possibili inquinamenti ottici delle immagini.


Sulla base di questa premessa, abbandonate le lenti paradigmatiche ed inforcate quelle colorate per l’analisi 3D, ho cominciato ad analizzare criticamente le immagini di Opportunity.

 

TAVOLA 2

La prima immagine presa in considerazione (TAV. II)  mostrava come ci fosse una stretta correlazione geometrica tra le sferule e le tracce di polvere presenti sulle rocce. La “colonia” di sferule era rigorosamente posizionata lungo i confini del sedimento con una precisione tale da escludere qualsiasi casualità.

Successive osservazioni hanno mostrato come su tutte le altre rocce ci fossero sempre degli accumuli di polvere in corrispondenza di nutriti gruppi di sferule,  le quali risultavano sempre perfettamente posizionate entro i confini degli accumuli stessi. Questa circostanza e la contemporanea verifica che molte sferule che apparivano “isolate” erano in realtà posizionate lungo linee di frattura del substrato o comunque in coincidenza con fessure interstiziali ricolme di polvere, stabiliva una corrispondenza biunivoca tra sferule e sedimento, ma non era di per sé sufficiente a dimostrare un’organizzazione sul terreno delle sferule: tutt’al più poteva porre degli interrogativi la circostanza che le sferule avessero il tempo di “cedere” ematite o magnetite alla roccia sottostante (tesi NASA) prima che un qualunque fenomeno naturale le scompaginasse, visto che in gran parte non sembravano incastrate nel substrato.

 

Rianalizzando l’immagine in TAV.II notai come la colonia di sferule tendesse, per così dire, a risalire la roccia in curiose formazioni moniloidi e a biforcarsi in coincidenza con linee di frattura del substrato o accumuli di sedimento. A questo punto ho riesaminato le varie immagini dell’area intorno a “Last Chance” per controllare se fossero riscontrabili segnali dello stesso fenomeno.

Ebbene da tutte le immagini risultava evidente lo stesso “comportamento” delle sferule, anzi emergevano nuove caratteristiche ancora più sorprendenti. Le sferule parevano disporsi sempre in “catenelle” seguendo un tracciato sinusoidale.

Evidenziando il percorso delle sferule, ho quindi provato a collegare graficamente tra di loro le sferule disposte in catene: i tracciati ottenuti individuano quelle che chiamerò convenzionalmente “colonie” e a cui assegnerò per chiarezza una diversa lettera dell’alfabeto ed un colore specifico (TAV. III)

 

TAVOLA III

Prendendo in esame i tracciati A e B che per la loro lunghezza sono più significativi e chiarificatori, si possono rilevare alcuni caratteri invarianti:

1)       I tracciati hanno origine dal terreno circostante ed hanno inizialmente andamento rettilineo e successivamente parasinusoidale

2)       In corrispondenza di depositi di sedimento laterali, i tracciati si biforcano

3)       Quando i tracciati raggiungono zone prive di sedimento o stanno per intersecare il tracciato di altre colonie si arrestano e tendono a ripiegarsi su sé stessi

4)       I tracciati delle varie colonie non intersecano mai né il proprio tracciato né quello di altre colonie.

Dalle immagini successive (TAV.IV) si può rilevare che la stessa disposizione in catene sinusoidali si presenta in modo più o meno evidente in tutte le zone dell’area interessata dalla missione di Opportunity.

 

TAVOLA IV

A questo punto ho messo alla prova questo primo risultato prendendo in esame delle immagini a caso e verificando se, in base ai parametri sopraesposti, fosse possibile ricondurre tutte le sferule presenti nelle foto a catene che seguissero le regole ipotizzate (TAV.V).

 

TAVOLA V

Riesaminando i risultati A, B e C dell’immagine 1 non ho potuto fare a meno di notare come i tracciati disegnassero sul terreno delle simmetrie ben precise.

Come chiunque potrà verificare agevolmente, questi tracciati moniloidi sono riscontrabili solo nelle foto provenienti da Meridiani, comunque, per ulteriore conferma, nell’immagine 2 si può osservare come, in una porzione di suolo libera  da sferule complete, non siano riscontrabili tracciati analoghi.

In seguito a queste osservazioni avevo previsto che nel cratere Fram si sarebbe incontrata una situazione simile, e in TAV.VI si può osservare una foto di una “roccia” nel cratere Fram, che non ha bisogno di alcun commento.

 

TAVOLA VI

Dato che la successiva esplorazione di Endurance ha confermato la persistenza di questi tracciati, è ora possibile azzardare un modello plausibile per interpretarne il significato, in accordo con tutte le osservazioni successive.

Quello che ho definito “sedimento” appare composto di due tipi di polveri, una più scura, che la NASA ci assicura contenere una significativa percentuale di ematite ed una più chiara, che, presumibilmente di natura silicea, tende a disporsi in catene ordinate, identiche a quelle che possiamo notare nelle sferule. Chiamerò queste “polveri” rispettivamente DS (Dark Spots) e BS (Bright Spots). Dato che il Microscopic Imager dei Rovers non è in realtà un vero microscopio, ma piuttosto una forte lente di ingrandimento, nulla è possibile dire con certezza sulla natura organica o meno delle polveri, per cui per interpretarne la natura è necessario limitarsi a studiarne i meccanismi di aggregazione. Vediamo al riguardo la TAV. VII

 

TAVOLA VII

Nell’immagine X si può notare come i BS si dispongano in catene ordinate, mentre nell’immagine Y, relativa ai rilevatori magnetici del rover, è evidente come i DS tendano ad associarsi in strutture vescicolari. Dalle foto riprese nei pressi di Endurance, come quella dell’immagine Z, si può inoltre rilevare come le polveri diano luogo a strutture laminari ed in pratica “crescano” lungo assi preferenziali, fino a formare degli aggregati che si presentano in varie forme, talora perfettamente sferiche, cilindriche, coniche o anche filamentose come nella successiva TAV:VIII

 

TAVOLA VIII

In pratica DS e BS si associano in base a criteri che sembrano avere una doppia e contemporanea natura, organica e magnetica.

Ritornando per un momento alle prime considerazioni dei biologi di Pasadena, è importante ricordare come le strutture tipiche a biochimica silicea dei Radiolari terrestri siano praticamente identiche a quelle riscontrate su Marte e sugli altri pianeti del sistema solare, con la sola differenza che sulla Terra non oltrepassano quasi mai la dimensione di poche decine di micron. 

Nella TAV.IX ho incluso un’immagine microscopica di radiolari ed alcune delle loro tipiche modalità di aggregazione.

 

TAVOLA IX

Contrariamente ai radiolari, le polveri DS e BS si aggregano in strutture preordinate senza limiti dimensionali apparenti, quasi come se rispondessero ad una sorta di “progetto” interno, tanto che possono dar luogo a forme che possiamo interpretare di volta in volta come animali, meccanismi o strutture architettoniche. La cosa è avvalorata dal fatto che, tutte le volte che i rovers hanno frantumato queste strutture, le stesse si sono polverizzate, quasi come se fossero stati interrotti contemporaneamente tutti i legami che le mantenevano assemblate.

Sotto certi aspetti quindi le “creature”, che in un primo tempo anch’io avevo classificato come forme di vita, sono più simili a macchine bioniche o a “pietre animate”, più che a organismi biologici veri e propri.

Una conferma indiretta ci viene paradossalmente dalle “censure” della NASA. Le stesse non interessano tanto le formazioni che simulano possibili forme di vita (cobra, molluschi ecc.), quanto piuttosto le aggregazioni di natura “tecnologica”, in cui agiscono superconduttori, campi energetici gravitazionali ed elettromagnetici ed in cui sono visibili effetti di levitazione ed alterazioni dimensionali (trasparenze indotte, morphing ecc.).

Incuneatomi tra le maglie della censura, presento in questa sede alcune prove delle mie affermazioni.

Nell’animazione seguente la freccia bianca indica un’area di alterazioni dimensionali indotte da fenomeni energetici.

 

 


Il fenomeno è ancora più evidente nel settore cerchiato di questa animazione, dove una specie di formazione ectoplasmica si trasforma in una struttura radiale ad estremità sferiche.

 

 

La spiegazione risiede probabilmente nel fatto che dietro queste manifestazioni apparenti si nasconde un’energia di potenza incalcolabile, capace di interferire con la forza di gravità e con la stessa natura atomica della materia.

Nell’animazione seguente, derivata da una sequenza di percorso in Endurance, si può notare come all’approssimarsi del rover un’intera porzione di terreno di natura BVB/BCS della lunghezza di diversi metri si abbassi contemporaneamente di circa mezzo metro (una delle due immagini è meno definita in quanto ripresa da maggiore distanza, ma il movimento non è un effetto ottico dovuto alle ombre: osservare al riguardo che le ombre dei massi in alto nella foto non cambiano nella sequenza)

 

 

Comprendo benissimo come non sia facile per la NASA divulgare presso l’opinione pubblica l’eventualità che entità aliene ci stiano “terraformando” il sistema solare sotto i piedi, però ritengo che tacere i fatti per sfruttare qualche brevetto in più potrebbe trasformarsi in un boomerang estremamente pericoloso.

Queste entità, che ho fantasiosamente definito “i Fondatori”, non necessitano di preesistente ossigeno atmosferico, come testimonia la loro presenza su comete, asteroidi ecc., e potrebbero essere la causa dei fenomeni anomali che interessano da alcune decadi tutti i corpi del sistema solare, Sole compreso. In accordo con le più recenti teorie dell’astrofisica moderna, si potrebbe anche considerare l’ipotesi che i Fondatori possano attingere alle risorse energetiche di universi paralleli nel quadro dell’assetto multidimensionale previsto dalle M-Teorie. Resta il fatto che anche qualora la fonte della loro potenza fosse spiegabile in modo più semplice, ciò non li renderebbe meno inquietanti.

 

 

ALESSIO FELTRI

 

 

 

Margherita Campaniolo

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