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Troppa vita su Marte

 di Alessio Feltri

 

Ieri ho incontrato un mio vecchio amico che, sapendo della mia rubrica sulle scoperte marziane, mi ha gratificato di un sorriso sarcastico, sparandomi un <<Allora, c’è vita su Marte?>>, ed io ho risposto <<Urka! Una discoteca via l’altra>>.

Sul momento mi era sembrata una buona battuta, ma dal suo sguardo perplesso ho capito che, non avendo letto i miei articoli, non ne aveva afferrato il significato ed anzi mi aveva probabilmente inserito nella sua personalissima libreria di personaggi irrecuperabili.

L’occasione è comunque propizia per alcune precisazioni relative al metodo di analisi che ho adottato finora per l’analisi delle fotografie pervenuteci dalla NASA.

La prima cosa che vorrei chiarire è la risposta ad una semplice domanda: ”Perché quello che vedo io non lo vedono anche gli altri?”. In fondo non ho il problema che hanno in genere gli ufologi, sempre alle prese con fenomeni isolati ed irripetibili e quindi sfuggenti all’analisi scientifica classica, la quale non può evidentemente prescindere dalla riproducibilità del fenomeno. Le fotografie che esamino sono alla portata di tutti, qualcuna addirittura da decine di anni, e allora perché è così difficile condividere le informazioni?

Come sempre cercherò di spiegarmi per immagini ed allo scopo prendiamo in esame questa foto lunare del cratere Hannover, ripresa durante la missione Apollo 17.

 

 

Ad un esame superficiale non si vede nulla di strano, il solito cratere ed i soliti detriti. Una persona normale non si soffermerebbe più di 5 secondi nell’esame di questa immagine. Ma supponiamo che presa da un irrefrenabile impulso la stessa persona ci spenda 30-40 minuti, usufruendo per di più dei potenti mezzi che ci sono messi a disposizione dall’attuale tecnologia informatica. Il numero di informazioni crescerebbe esponenzialmente e si constaterebbe come in precedenza non avesse visto nulla di strano per il semplicissimo motivo che la potenziale stranezza era molto difficile da vedere.

Nella tavola seguente ho inserito un dettaglio 3D della stessa foto, in cui ho isolato e ingrandito 3 piccolissime sezioni, in cui sono facilmente riconoscibili le solite sfere collegate dalle ben conosciute strutture organiche lineari e concentriche.

 

In sintesi dalla dimensione dei cerchi gialli potete ben comprendere come basti non disporre di occhiali 3D a lenti colorate, di potenti software di fotoritocco e di un sacco di tempo a disposizione per far venire a chiunque la tentazione di rifugiarsi in un comodo “Sono solo pietre”.

A livello scientifico poi bisogna ricordare che non ha molto significato individuare in una foto qualcosa di apparentemente inesplicabile; il vero problema è individuare le ricorrenze di una particolare forma in luoghi diversi ma in contesti analoghi, possibilmente cercando di interpretarne le connessioni e le funzioni, pur con tutte le limitazioni derivanti dall’esiguità delle fonti a disposizione.

Nei miei articoli precedenti si è visto come le forme organiche marziane siano sempre parzialmente nascoste alla vista dalla fanghiglia in cui sono immerse, per cui vi è l’ulteriore difficoltà di “ricostruire” una struttura complessa partendo da un suo minuto dettaglio, spesso addirittura da un semplice frammento.

Perdonate questo “mugugno”, arte prettamente ligure consistente nell’annoiare a morte il prossimo raccontando i propri problemi, e affrontiamo piuttosto il metodo che ho seguito finora per classificare le cosiddette “anomalie” marziane, basato su alcune intuitive classi di suddivisione:

1)     Forme uguali su pianeti diversi

2)     Forme uguali sullo stesso pianeta, in aree diverse

3)     Forme uguali sullo stesso pianeta e nella stessa area

4)     Forme in movimento

 

Il concetto di uguaglianza, o meglio di similitudine nel caso di strutture organiche ad elevata variabilità morfologica, è il più semplice metodo per restringere il campo delle ricerche. Un dettaglio che bisogna ricordare è che le aree fotografate dalle sonde sono solo una piccolissima parte delle superfici dei pianeti, per cui il reperimento di forme uguali ha un elevatissimo coefficiente di correlazione, restringendo la casualità ad un fattore prossimo allo zero.

Riguardo al concetto di uguaglianza o similitudine, mettetevi per un attimo nei panni di un alieno che dovesse interpretare la vita terrestre sulla base di poche foto a disposizione: riuscirebbe a capire qualcosa sulla nostra specie da queste immagini?

 

E riuscirebbe a concludere, da queste foto di “Gibbula Varia”, che appartengano alla stessa specie?

 

FORME UGUALI SU PIANETI DIVERSI

 

I gusci di quelli che ho chiamato “Fondatori” sono di forme molto diverse, ma le varie tipologie sono col tempo abbastanza riconoscibili nelle linee fondamentali.

Eccone un esempio ripreso da un confronto tra foto 3D lunari (Apollo 17) e marziane (Spirit):

 

 

 

Chi fosse interessato ad approfondire le casistiche sulle “stoneshells” marziane può consultare i miei articoli precedenti, partendo dai vari capitoli di “Like a Rolling Stone”.

 

FORME UGUALI SULLO STESSO PIANETA, IN AREE DIVERSE

 

Sempre restando nell’ambito della missione lunare Apollo 17, analizziamo questa tavola, ripresa da una foto di un’area classificata dagli astronauti col nome rivelatore di “Family Mountain”. Nell’immagine in alto ho ricalcato i contorni dei gusci per evidenziarne la correlazione geometrica

 

Confrontiamo ora queste forme con quella dell’”Ingegnere” (soprannome da me applicato a queste strane e complesse strutture) trovato dagli astronauti di Apollo 17 in un’altra area lunare.

 

Pur non rappresentando una prova conclusiva, mi pare comunque abbastanza stimolante, tanto da far nascere la curiosità di controllare se le due strutture precedenti non siano in realtà le “torrette” di due “Ingegneri” interrati.

Anche su Marte è agevole trovare forme identiche in luoghi diversi, come nel caso di questi gusci rotti di “Iniettori”, indicati dalle lettere A e B:

 

I colori in A indicano i 3 filamenti di microsfere caratteristici di queste strutture, che sembrano essere legati a peculiari stati transizionali di “attività”.

Come si vede i gusci fotografati sono quasi sempre frantumati, dato che a noi poveri mortali la NASA non ritiene opportuno concedere di più.

 

Per chi ritenesse quest’ultima affermazione una prova della mia natura paranoide, ho preparato questa tavola, in cui ho messo a confronto due foto 3D dello stesso guscio.

 

Nella foto in alto, meno chiara in quanto forte ingrandimento di una foto panoramica, si vedono chiaramente i 3 filamenti di un “Iniettore”, che sono invece stati cancellati nella foto in basso, cioè quella presentata al pubblico.

A puro titolo di informazione spicciola, ricordo che la NASA dispone di un software molto sofisticato, che da un mosaico di foto dell’area acquisisce in modo automatico una copia virtuale 3D della porzione di terreno fotografata. Questo metodo è stato perfezionato per consentire la guidabilità dei rovers da parte dei tecnici di Pasadena, i quali hanno quindi la possibilità di individuare e prevedere gli ostacoli sulla base di immagini tridimensionali. In sintesi quindi la maggior parte delle immagini ravvicinate presentate al pubblico non sono quelle originali, bensì quelle “virtuali”, ritoccate, rifotografate e sostituite agli originali.

Per capire meglio potete a titolo di esempio osservare queste foto, diffuse dalla stessa NASA, in cui potete vedere una ricostruzione virtuale di terreno:

 

Oppure quest’altra foto con la ricostruzione virtuale di un’ablasione microscopica del RAT:

FORME UGUALI SULLO STESSO PIANETA E NELLA STESSA AREA

 

Un po’ come succede per gli ecotipi terrestri, accade spesso che sulla stessa area si possano reperire esemplari identici, come nel caso di questi grossi “Iniettori” posizionati a pochi centimetri uno dall’altro.

 

Nella foto 3D di Spirit, le frecce indicano la parte anteriore (front) dei due “beccucci” dei GDI (Gravity Disk Injectors) e nel caso del GDI in alto anche un bell’esempio di GDU (Gravity Disk Unit), di cui è ben visibile la caratteristica trasparenza. Sono inoltre ben esposti i tubi rettilinei biancastri nella parte posteriore (rear) parzialmente annegati nel terreno. Normalmente queste strutture sono quasi completamente nascoste all’interno dei gusci, che in questo caso sono però frantumati, come testimoniato dai frammenti circostanti.

A titolo di curiosità e senza voler accreditare correlazioni effettive, faccio notare come questi due Iniettori assomiglino non poco ad uno dei grandiosi “uccelli” di Nazca.

 

FORME IN MOVIMENTO

 

Quando i rovers acquisiscono un’immagine tridimensionale, in uno spazio di tempo inferiore al secondo scattano 2 foto, una con l’obiettivo sinistro ed una con quello destro, separati l’uno dall’altro di pochi centimetri. Raggruppando in un’animazione le due immagini è possibile verificare se qualcosa si sia mosso tra una foto e l’altra, naturalmente in modo incompatibile con la semplice variazione del punto di vista.

Con incompatibilità si devono intendere tutti i movimenti verticali, nonché quelli orizzontali di ampiezza diversa da quella che ci si dovrebbe aspettare in base alla prospettiva.


Questa in genere è una prova quasi conclusiva della presenza di forme di vita, come si può vedere in questa immagine di uno dei soliti gusci, in cui le frecce indicano gli elementi che presentano variazioni incompatibili con la modificazione del punto di vista

 

UN PO’ DI FILOSOFIA

Traendo le prime conclusioni dall’affascinante avventura dei rovers marziani, l’aspetto senza dubbio più “destabilizzante” è la somiglianza incredibile tra le formazioni lunari e quelle di Marte, di Mercurio, nonché di satelliti e asteroidi, mentre la Terra sembrerebbe essere un’eccezione alla regola.

Molti aspetti dei Fondatori, questi enigmatici microorganismi simbiotici, restano misteriosi e possono solo al momento essere oggetto di ipotesi, specialmente riguardo a GDI e GDU, i cui aspetti energetici possono essere attribuibili ad una qualche forma di fotosintesi, ma senza prove oggettive al riguardo.

Certamente i gusci delle “similpietre” marziane non sono casuali e devono avere per forza una motivazione precisa e connessa con la produzione di energia, come sembra deducibile da questa immagine diffusa dalla NASA relativamente alle temperature riscontrate all’interno del cratere “Bonneville”, in cui si può notare come la temperatura di uno dei gusci in primo piano sia di circa 40 gradi inferiore a quella del terreno circostante. Questo non avrebbe molta logica, almeno prescindendo da una qualsiasi forma di trasformazione di energia che avvenisse nell’ambito del guscio stesso.

Tanto per divertirmi nel creare un modello ipotetico sulla base delle osservazioni di questi mesi, sarei orientato a identificare i Fondatori con la polvere interstellare, quella “materia oscura” che costituisce la quasi totalità della massa del nostro universo, di cui le comete possono essere l’effettivo vettore nell’ambito del nostro sistema. La loro energia, in assenza di ossigeno atmosferico, sembra essere dipendente dal vento solare, particolare questo che spiegherebbe una differente strada intrapresa dalla vita sul nostro pianeta.

In linee generali quindi la vita nell’universo non sarebbe l’eccezione, bensì la regola, mentre nulla di quanto si è visto finora sarebbe invece al momento direttamente correlabile con il nostro concetto di intelligenza.

In conclusione, se è vero, come sosteneva Schrodinger, noto per le sue equazioni di meccanica quantistica, che l’unico e solo compito della scienza è quello di dirci chi siamo, allora la mia risposta non può che essere una: noi siamo il mezzo attraverso cui l’Universo conosce se stesso.

ALESSIO FELTRI

 

 

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