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«Nello spazio cercando noi stessi»

Emanuele Rebuffini


Celebre cosmologo e matematico, John D. Barrow, insegna all’Università di Cambridge, dopo essere stato professore a Oxford, Berkeley e aver diretto il Centro di Astronomia del Sussex. Grande divulgatore scientifico, è autore di centinaia di pubblicazioni, tra le quali L’universo come opera d’arte, Impossibilità e Da zero all’infinito, la grande storia del nulla (Mondadori, 2002). È anche autore di un testo teatrale, Infinities, per la regia di Luca Ronconi. Lo abbiamo incontrato a Torino in occasione della cerimonia del Premio Italgas, dove Barrow ha ricevuto il premio «Divulgazione e ambiente» nel fascinoso scenario della Mole Antonelliana.
In queste settimane l’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sulle esplorazioni marziane. Quale importanza rivestono per l’umanità?
«Ci aiutano a capire quale è il nostro posto nell’universo. A lungo ci siamo chiesti se la Terra sia l’unico pianeta in cui esistono forme di vita e per questo abbiamo sempre coltivato il desiderio di poter esplorare gli altri pianeti».
Queste missioni richiedono grandi finanziamenti, che potrebbero essere meglio impiegati nella lotta al terrorismo, all’inquinamento e al sottosviluppo. Dallo spazio possono arrivare risposte ai nostri problemi terreni?
«È importante esplorare sia lo spazio sia il nostro mondo per migliorarlo. Come per tutti i budgets, anche in questo caso si tratta di riuscire a suddividere le risorse disponibili in modo tale da poter finanziare attività diverse. Tenga presente che le spese stanziate per esplorare Marte sono una frazione minuscola rispetto al budget destinato ad altre attività, per esempio le spese militari, oppure le spese per la sanità, oppure le spese che le nostre famiglie sostengono per andare al ristorante o al cinema. Gli spettatori che vanno al cinema a vedere film come ”Star War” dovrebbero devolvere il 5% del prezzo del biglietto al finanziamento delle ricerche spaziali. E sono sicuro che se venisse proposto, gli spettatori accetterebbero. Le esplorazioni spaziali ci permettono di ottenere informazioni molto importanti, per esempio nel campo climatico. Lo studio del sistema atmosferico di Giove ci sta aiutando a comprendere la complessità dell’atmosfera terrestre. Lo studio dell’instabilità atmosferica dei pianeti ci è utile per comprendere i mutamenti climatici terrestri. C’è però da tenere presente che i benefici derivanti da un programma spaziale sono indiretti e a lungo termine. Il beneficio principale del programma Apollo degli anni ’60 è stato lo sviluppo dell’industria informatica. Così l’acceleratore di particelle è servito alla creazione di Internet».
Lei è un sostenitore della teoria della continua espansione dell’universo. Quali sono le conseguenze etiche e filosofiche di questa visione?
«Ci sono due teorie, quella che sostiene che l'universo sia destinato a una contrazione e quella che ritiene che l’espansione sia continua. Le prove sono tutte a favore di quest’ultima. La vita umana è apparsa solo a un certo punto nella storia dell’universo e anche in futuro avremo forme di vita, anche se diverse da quelle che conosciamo. Tutti noi siamo formati da atomi di carbonio. Il carbonio è presente nelle stelle ed è grazie alla reazione nucleare che si libera nell’universo. Per la costruzione di questi blocchi di vita occorrono miliardi di anni e le dimensioni dell’universo sono proprio ciò che consente la vita. In un universo di dimensioni più ridotte non avremmo modo di sopravvivere, perché non ci sarebbe il tempo di costruire questi ”blocchi di vita”. In futuro la vita continuerà nell’universo, ma questo sarà sempre più inospitale, perché le stelle moriranno. Quindi questa teoria comporta una visione pessimistica del futuro».
Ma per capire l’universo dobbiamo guardare verso le stelle o dentro noi stessi?
«Il problema che esiste in natura è che esistono cose infinitamente grandi e cose infinitamente piccole. Noi stessi non sappiamo se la materia sia divisibile all’infinito. Sospettiamo che non lo sia e che a un certo punto si arrivi a trovare una particella infinitesimale non più divisibile. Non sappiamo se l’universo abbia una dimensione infinita, e non lo sapremo mai, proprio perché abbiamo la possibilità di percorrere solo una distanza finita».
Lei è stato chiamato a dirigere il Millennium Mathematics Projetc, per diffondere la cultura della matematica. E per dimostrare che il matematico non è né una persona noiosa né un genio folle come il Nash di «A beautiful mind»...
«Se volessimo insegnare la meccanica potremmo partire dai movimenti dello sport o della danza, cioè da qualcosa che appartiene alla vita quotidiana. Per spiegare la statistica potremmo prendere in considerazione la lotteria. Mi piace praticare lo stesso tipo di approccio per la matematica. Trarre esempi concreti dal mondo. Pensiamo ai dipinti di Pollock, che hanno molto a che vedere con la teoria dei frattali. Anche le piante sono dei sistemi di frattali. Si deve usare il mondo che ci sta intorno per dimostrare che la matematica è ovunque».

http://ilmattino.caltanet.it/hermes/20040309/NAZIONALE/CULTURA/SALE.htm

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